Un amaro déjà-vu. Pensavamo di essercela lasciata alle spalle, la crisi dei chip. E invece eccoci di nuovo qui, a parlare di linee ferme, scorte finite e sensori che non arrivano.
Stavolta il problema si chiama Nexperia, produttore olandese di semiconduttori controllato dal colosso cinese Wingtech.
Se hai sentito parlare della vicenda, ma ci hai capito poco, facciamo un riepilogo (il più chiaro e semplice che troverai sul web, promesso).
Tutto iniziò con...
A fine settembre, il governo dei Paesi Bassi ha deciso di commissariare l’azienda invocando la “Goods Availability Act”, una legge che consente di intervenire su società considerate strategiche per la sicurezza nazionale.
Traduzione: troppi sospetti sul controllo cinese e sulla gestione interna.

Pechino, ovviamente, non l’ha presa bene. La risposta è arrivata pochi giorni dopo: blocco alle esportazioni di chip Nexperia prodotti in Cina verso l’Europa. Risultato? Fabbriche automobilistiche di nuovo nel panico.
Chip semplici, guai complessi
Non si parla di processori sofisticati, ma di microchip elementari: quelli che controllano luci, centraline, freni, sensori. Pezzi minuscoli e invisibili, ma senza i quali nessuna auto – elettrica o termica – può uscire dalla linea di montaggio.
“Non esistono sostituti pronti”, avverte l’ACEA. Gli impianti europei di Volkswagen, Stellantis, Renault e Volvo dipendono in larga parte da componenti Nexperia. E se la situazione non si sblocca in fretta, alcuni stabilimenti potrebbero fermare la produzione entro novembre.

Il boomerang geopolitico
Dietro la crisi c’è la geopolitica. L’Olanda, spinta anche da Washington, ha deciso di stringere i controlli sulle tecnologie “sensibili”. La Cina ha risposto colpo su colpo, colpendo l’anello più vulnerabile della catena: i semiconduttori per l’automotive.
Una mossa chirurgica. Non tanto per i valori economici in gioco, quanto per l’effetto domino. In un settore già provato da anni di turbolenze – pandemia, transizione elettrica, materie prime – basta poco per riaccendere il caos.
Europa in trincea
La fotografia è chiara: 8% del PIL manifatturiero europeo e oltre 8 milioni di occupati legati all’automotive. Un blocco anche parziale della produzione avrebbe conseguenze pesantissime.
In Germania, la VDA parla di “rischio sistemico”; in Francia, la Renault valuta piani di emergenza; in Italia, Stellantis monitora da vicino le forniture per evitare contraccolpi sulle linee di Melfi e Pomigliano.
Nel frattempo, le scorte residue coprono – nella migliore delle ipotesi – due o tre settimane di produzione. Poi si entra nel buio.

Effetto Italia
Da noi, in realtà la situazione al momento resta fluida, ma non tranquilla.
I fornitori italiani di componentistica elettronica – spesso integrati nelle catene tedesche e francesi – sono già in allerta. Una fermata in Germania o in Francia si traduce quasi automaticamente in un calo di ordini a Torino, Modena o Bari.
L’ANFIA chiede al governo di preparare “misure di salvaguardia” per proteggere l’indotto, mentre al MIMIT si lavora a un tavolo tecnico per valutare scenari alternativi.

Per i concessionari, il caso rievoca brutti ricordi: ritardi, listini in salita, versioni tagliate per mancanza di componenti. In sintesi, lo spettro del 2021 torna a farsi sentire.
Lezioni non imparate
La verità è che il vecchio continente, nonostante i proclami del “Chips Act”, resta troppo dipendente da fornitori esterni. Si investe tanto sui chip “avanzati”, ma si dimenticano quelli piccoli, i più economici, che tengono in vita l’industria.
E oggi, è proprio la carenza dei componenti “banali” a far tremare l’auto europea. Come se bastasse una vite mancante per bloccare un motore intero.

Prossima fermata: resilienza
Difficile dire come andrà a finire. Il governo olandese cerca un compromesso diplomatico con Pechino, ma i tempi della politica non coincidono con quelli delle catene di montaggio.
Nel frattempo, l’Europa si interroga sul futuro: serve una filiera locale dei chip, anche di base, e servono in fretta.
Perché, se la storia insegna qualcosa, è che ogni crisi dei semiconduttori – piccola o grande – finisce sempre allo stesso modo: con un’auto in meno uscita dalla fabbrica e un cliente che aspetta invano.



