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Schumi-Fangio: stessa razza


Avatar Redazionale , il 02/09/02

21 anni fa -

Monza 1956: quando i campioni, per vincere, dovevano sudare sette camice e... "contare" sui propri compagni di squadra.

La grande festa rossa di Monza attende il suo biondo protagonista. Che arriva carico di gloria e di onori, nonché di titoli (cinque), di vittorie e di record (il prossimo record che Schumacher Michael da Kerpen tenterà di battere sulla pista brianzola, è di dieci successi consecutivi in una stagione). Il biondo arriva in Itaiia per vincere, naturalmente, e arriva preceduto dal coro di osanna per avere eguagliato i cinque mondiali vinti da Juan Manuel Fangio, l’ultimo dei quali esattamente quarantacinque anni or sono. Di tutto ciò che si è detto e scritto a proposito del parallelo tra i due unici penta-campioni del mondo nella storia della Formula 1, probabilmente c’è poco che valga la pena ascoltare o leggere. I paragoni tra epoche diverse non sono possibili: parola di Stirling Moss, uno che se ne intende.

E poi, in fondo, Fangio e Schumacher sono più simili di quanto si pensi: un campione può vestire panni diversi, guidare vetture nemmeno paragonabili tra loro, guadagnare cifre differenti, ma dentro è animato da un identico “furore”: vincere, vincere, vincere. Con la differenza che per il tedesco della Ferrari tutto è molto più semplice, più dignitoso, più scontato: è per contratto la prima guida Ferrari, ha sempre il muletto a

disposizione e, nel dubbio, è a lui che spetta la vittoria. Ecco invece a quali anacronismi era costretto un altrettanto insaziabile tre volte campione del mondo di allora per cercare di vincere ancora. 

Qui a Monza, quarantasei anni fa, precisamente il 2 settembre 1956, avvenne qualcosa che vale la pena ricordare. Perché, se i campioni non cambiano, il mondo delle corse non è più lo stesso da decenni. Capitava così che anche uno come Fangio, che in quel momento era già Fangio e aveva già vinto tre mondiali, per conquistarsi la quarta corona iridata doveva sudare sette camicie, oltre che contrarre debiti di riconoscenza a lunga, lunghissima scadenza.

Dunque, il duro argentino nel settembre ’56 era reduce da una stagione spossante. Quell’anno nella squadra Ferrari di Formula 1 i piloti erano cinque: Fangio, Peter Collins, Luigi Musso, Eugenio Castellotti, Alfonso Portago. Dei quali uno era il vecchio della situazione (Fangio) e gli altri erano quattro galletti bramosi di vittorie.

In Ferrari all’epoca vigeva questa regola: chi aveva più punti in classifica al Gran Premio di Francia (che si svolgeva solitamente a Reims) aveva il sostegno dei compagni di squadra per la corsa al Mondiale. Quell’anno Fangio aveva preteso il contratto da prima guida, e Ferrari, obtorto collo, aveva accettato, e gli aveva dato in uso pure una Fiat 1100, cosa che con i suoi

campioni non aveva fatta mai.

Fino a un certo punto le cose erano andate bene: Fangio aveva vinto requisendo la macchina ai suoi giovani compagni. Allora si usava: in Argentina prese la macchina di Luigi Musso per vincere, mentre a Montecarlo salì su quella di Collins per arrivare secondo. Ma dato che allora le auto, anche se di marca Ferrari, non avevano l’affidabilità di quelle di oggi, causa una serie di rotture Juan Manuel si trovò spesso in difficoltà, con Peter Collins che lo insidiava in classifica.

Fu così che Juan Manuel arrivò a giocarsi tutto a Monza, ultima gara del campionato 1956. Ferrari, prima del via, disse al suo direttore sportivo Eraldo Sculati: “Lascia liberi i ragazzi”. I ragazzi erano Castellotti, Musso, Portago e Collins.

In gara all’argentino girò subito storta: la sua macchina si ruppe. Come si ruppe anche quella di Portago, che di solito era la prima Ferrari a essere requisita da Fangio. Juan Manuel chiese allora la macchina di Musso. Il manager dell’argentino, Marcello Giambertone, litigò con Sculati, che non volle fermare Musso per “sequestrargli” la macchina.

Musso era secondo, poteva vincere e non aveva nessuna intenzione di fare altre cortesie a Fangio. Sculati, per protesta nei confronti di Giambertone, andò in tribuna. Nel frattempo, Giambertone fece esporre il cartello a Musso con la richiesta di rientrare ai box, il quale rispose con il gesto dell’ombrello. In quel momento, Fangio aveva praticamente perso il Mondiale.

Ma Ferrari aveva probabilmente parlato con Peter Collins, oppure non ce n’era stato bisogno, perché Collins era un uomo intelligente e aveva capito: al 34° giro si fermò e cedette la sua macchina a Fangio, consentendogli di diventare Campione del mondo per la quarta volta e conquistandosi così la sua pubblica gratitudine.

Luigi Musso, andato in testa, non vinse la corsa e dovette ritirarsi. A Collins dissero: “Sei giovane, avrai tempo di rifarti”. Morì, al Nürburgring nell’agosto 1958, senza avere avuto una seconda possibilità.

Fangio a fine anno passò alla Maserati, con la quale vinse il suo quinto titolo, non dopo avere lottato strenuamente con i suoi ex compagni di squadra Musso, Collins, Hawthorn.

Si ritirò a metà 1958, a seguito della morte di Luigi Musso, che sulla sua Ferrari sfidava la macchina identica del rivale Hawthorn a Reims, in Francia, mentre era secondo nel mondiale. “Quello che è successo a lui può succedere anche a me” disse Fangio, e non ne volle più sapere di correre.

Luca Delli Carri, autore di questo articolo, è nato a Milano 32 anni fa. Giornalista con la passione dei motori e della loro storia sportiva, ha scritto per le pagine motoristiche di numerose testate, ha diretto un periodico di Formula 1 ed è stato curatore di un'enciclopedia sulla storia della Ferrari. Il suo primo libro (Gli Indisciplinati -Vivere e morire su una Ferrari: cinque storie di giovani piloti) è stato finalista nel Premio Bancarella Sport 2002. Pubblicato dall'editore Fucina (510 pg - 17,59 euro), può essere acquistato anche on line.


Pubblicato da Luca Delli Carri, 02/09/2002
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