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Reportage da Bagdad


Avatar Redazionale , il 18/02/05

19 anni fa - Quando l'auto va in guerra.

A Baghdad, la morte viaggia su quattro ruote, e chiusa nel bagagliaio. Mentre guidi potresti averla proprio a fianco, su quel taxi il cui conducente incrocia il tuo sguardo, o sull'autocisterna che ti precede nel traffico che avanza a singhiozzo con una lentezza esasperante, o nel cassone del camion che ti stringe da sinistra per guadagnare mezzo metro verso l'incrocio.

NUOVA ARMA È il nuovo volto della morte irachena, corredato di marca, modello e cilindrata: l'autobomba, arma della disperazione, della rabbia e dell'impotente e gretta frustrazione di un esercito senza uniforme e senza codice d'onore che combatte - o s'illude di combattere - il simbolo più tangibile e di questi tempi più accessibile del satanismo occidentale: le forze d'occupazione americane in Iraq e la loro carne da cannone, la Guardia Nazionale irachena.

TUTTE INSIEME Autobomba, camion-bomba, furgoni-bomba: nella sola Baghdad saltano in aria al ritmo di due o tre al giorno, portandosi all'altro mondo una media (calcolata negli ultimi 20 mesi) di almeno 14 vite umane al giorno. La polizia, secondo un copione ormai tristemente ripetitivo, recupera i relitti e li porta nel deposito di Kharada, dove le lamiere contorte si accatastano.

NIENTE CODE Ogni guidatore che si rispetti, nella capitale, non si fida più di nessuno e evita attentamente di passare nei pressi degli obiettivi preferiti dagli attentatori suicidi automuniti: i checkpoint delle tante entrate della zona verde (sede delle principali rappresentanze occidentali, oggi ribattezzata zona internazionale) gli ingressi delle caserme della Guardia Nazionale, le stazioni di polizia. Il problema è che spesso, per quante precauzioni tu abbia preso, l'obiettivo te lo ritrovi di fianco in uno dei tanti ingorghi che paralizzano la città, sotto forma di un convoglio di humvee americani, o di una macchina della polizia.

"Questa è la situazione che più odio" mi ha detto un giorno, a Baghdad, il mio vecchio amico Mohaned al Shammari, mentre eravamo, per l'appunto, imbottigliati nel traffico a fianco di un blindato dei marines che manovrava per farsi largo. "Restarmene qui come un imbecille, senza poter andare né avanti né indietro, rischiare che qui a due passi ci sia un uomo di al Zarqawi al volante di una macchina piena di tritolo e pensare che questo potrebbe essere il mio ultimo istante di vita". Eppure parlava con tono rassegnato, come di chi ha dovuto esercitarsi a lungo nella dura arte della convivenza con la morte. Prima che riuscissimo a uscire dall'ingorgo, Mohaned ha acceso una sigaretta e ha detto: "Beh, se dev'essere, almeno fumiamo".

                                                                   © di Sergio Ramazzotti, Parallelo Zero


Pubblicato da Redazione, 18/02/2005
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